Vis nel cuore di Claire Beaux

Bisognerebbe prendere una nave almeno una volta nella vita, calarsi tra gli umori e i rumori del porto e da lì partire verso un’isola.”[1]

E così ho fatto e per ben due volte sono partita per l’isola di Vis (Lissa), una delle più esterne isole dalmate di fronte alla città di Spalato (Croazia), da dove si prende il traghetto e in due ore e mezza si è a destinazione.

La prima era all’insegna dell’esplorazione a tutto tondo: alternavo giorni alla ricerca di calette e spiagge nascoste a immersioni su relitti e pareti. Prima di partire avevo letto la storia di quest’isola, aperta ai turisti solo di recente, ne avevo studiato la mappa, scovato un appartamento che già dalle fotografie mi era sembrato una favola e scelto il diving. L’anno successivo la mia valigia conteneva pochi vestiti leggeri, una buona scorta di libri, l’attrezzatura da sub al completo e un’enorme voglia di ritornare: stessa spiaggia stesso diving, B-24 Diving Center (https://diving-croatia.hr)


Sarà perché ho sangue istriano al 50% e la gente del mare dalmata mi è familiare, ma appena sbarcata sull’isola mi sembrava di essere a casa. Tipica vegetazione mediterranea, casette basse e bianche, alte scogliere e mare blu. La prima tappa è stato subito il diving, dopo un breve rifornimento all’unico, nel senso di grandezza, supermercato (ce ne sono altri, più piccoli i così detti market, ma solo nelle due principali città Vis e Komiza). Il B-24 è a bordo spiaggia, una grande stanza piena di attrezzature, giganteschi poster di relitti: subito approccio un ragazzo dalla faccia simpatica e mi metto d’accordo per le immersioni. Dopo qualche parola, capisco che qui si va alla giornata: si arriva la mattina prima delle nove, si vede com’è il mare, quanti sub vogliono uscire e ti viene detta la destinazione. E il pomeriggio si ripete la procedura. Beh, credetemi, non mi sono mai sentita più eccitata, non sapere fino all’ultimo dove si sarebbe andati dava ancora più emozione.

L’isola di Vis offre siti di immersione per tutti i gusti e tutti i livelli: i relitti sono, secondo me, i più affascinanti, forse a un occhio come il mio che ancora ne ha visti pochi. Visibilità incredibile (40-50 metri), corrente del tutto assente, possenza e dimensioni dei relitti. Per citarne uno, forse il mio preferito tanto che in due anni mi ci sono immersa cinque volte, è il Vassilios. Cargo lungo 104 m, costruito in Giappone, nel 1939 durante un viaggio verso Venezia, forse per un errore umano collide contro la costa e ora riposa dolcemente su un fianco alla profondità tra i – 25 m e i -50 m. Si trova a qualche decina di metri da un basso promontorio su cui fa vedetta una luce: ci si arriva in barca dopo una quindicina di minuti di navigazione in un mare che più blu non ce n’è. Si scende lungo la cima sulla prua ed eccolo lì, sembra un gigante addormentato: si naviga paralleli a quello che era il ponte, si intravedono tubi e ferraglia e il carbone che trasportava. A poppa appare l’elica e non vorresti più risalire.

Invece risali e durante il rientro a terra hai già voglia di immergerti nuovamente: questa volta si fa rotta un po’ più lontano, sul versante sud- est dell’isola, direzione Rukavac, direzione B-24 Liberator “Tulsamerican”. A Natale 2009 un subacqueo croato scopre, a circa -40 m, un bombardiere americano del tipo B-24 (il soprannome Tulsamerican deriva dalla città di Tulsa, Oklahoma, dove è stato fabbricato) abbattuto nel 1944. L’aereo poggia di schiena, con la fusoliera praticamente distrutta, ma è ancora ben visibile la postazione dei piloti; la coda giace a -52 m sotto una scarpata a una sessantina di metri di distanza dal resto dell’aereo. Trovandosi su un pianoro, i tempi di un’immersione profonda permettono un giro completo del corpo principale del velivolo e tra le lamiere si scorgono grandi cernie che fanno da guardiane. Forti le emozioni che si provano, mai nessuna parola o frase ben costruita riusciranno a trasmettere la storia drammatica che il B-24 ti racconta mentre lo ammiri. Un altro sito molto piacevole, soprattutto per i neo-subbi, è il relitto Teti. Nel 1930, questo naviglio lungo 72 metri, che trasportava carbone, urta lo scoglio di Mali Barjak e affonda a -30 m. È l’immersione più proposta agli avventori del diving: a breve distanza di navigazione, molto facile, suggestiva, tanto pesce e un ospite abituato alle nere sagome che gli sguizzano attorno. È un sarago che fa capolino dai tubi arrugginiti in attesa dell’usuale pasto che la guida ogni giorno (e anche più volte al giorno) gli porta.

Vis mi è rimasta nel cuore: ogni tanto mi chiama e mi richiama, come le sirene, ammaliatrice. La pace delle sue calette, il blu del mare che si estende tutt’intorno, le casette bianche di Komiza, i fichi, le meraviglie custodite dalle sue acque. Se vi capita di andare, vedrete che chiamerà anche voi.

I relitti […] riportano esattamente là dov’era il tempo in cui sono stati. […] La nave affonda, portando con sé il tempo in cui è stata. I relitti sono spettri di una vita trascorsa che spesso ospitano nuova vita, quella del mare di cui adesso sono parte[1].”


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